In data 23 settembre si è riunita l’assemblea convocata dalle sigle sindacali che avevano proclamato lo sciopero generale del 27 ottobre dalla quale doveva emergere la decisione finale su tempi e modalità della proposta di sciopero generale. Alla luce della richiesta di USB di spostarlo di un paio di settimane alcune sigle sindacali – noi di Adl Cobas, la Confederazione Cobas e lo stesso Si Cobas, che era tra i promotori dello sciopero del 27 ottobre – avevano espresso la disponibilità a convergere su una unica data di sciopero generale, visto che tutte le sigle sindacali condividevano i contenuti dello sciopero.
Prima di entrare nel merito di quanto discusso e deciso dall’assemblea di sabato è bene richiamare alcune riflessioni che abbiamo avuto modo di fare in quella sede e precedentemente.
Partiamo dal tema in sé dello sciopero generale e della sua opportunità ed “efficacia” politica. Bisogna essere consapevoli che anche mettendo insieme tutte le sigle del cosiddetto “sindacalismo di base” non si è in grado comunque di costruire un qualcosa che ci assomigli realmente, rischiando quindi di diventare mera ritualità, senza la capacità reale di confrontarsi con la materialità dei rapporti di forza nella società e dei processi reali in atto, rischiando di diventare inefficace sul piano dei rapporti di forza tra le classi, nel rapporto con il Governo e poco comprensibile allo stesso corpo sociale che rappresentiamo.
Certo, in alcuni settori (vedi trasporto pubblico e privato) lo sciopero, come si è verificato il 16 giugno, può effettivamente assumere una dimensione generale, ma nell’insieme degli altri settori, siamo ben lontani dal determinare una qualche paralisi delle attività produttive.
Questa è la dura e cruda realtà dei fatti, affermare il contrario sarebbe un puro esercizio di fantasia.
Ciò detto nel comunicato che abbiamo prodotto in vista dell’assemblea di Milano avevamo auspicato che si arrivasse ad una indizione comune di una giornata di mobilitazione generale, di lotta e di scioperi, che potesse intrecciare nei vari territori almeno alcune delle problematiche che oggi attraversano il paese, costruendo assieme ad altri soggetti iniziative adeguate alle possibilità concrete di mobilitazione.
Chiaro che nella consapevolezza di avere un peso sociale e politico molto modesto, anche presi tutti assieme – c’è chi conta qualcosa nel pubblico impiego, chi qualcosina in comparti storici dell’industria manifatturiera, chi conta qualcosa di più nel settore del trasporto pubblico e privato – il riuscire a trovare una data comune per questa giornata di mobilitazione e lotta avrebbe potuto produrre un effetto non di pura sommatoria delle sigle sindacali, ma anche di moltiplicazione della partecipazione, anche di chi non è organizzato nel “sindacalismo di base” o magari che non può organizzarsi dentro forme sindacali classiche.
Fino a sabato pensavamo che questo concetto fosse quasi una scontata banalità, ma abbiamo constatato che così non è.
L’assemblea del 23 settembre ha di fatto appena sfiorato l’ipotesi di una data comune, andando ad evidenziare non la condivisione dei contenuti sulla proposta di sciopero, ma gli elementi che dividono: tra chi pensa che sia utile usare strumentalmente l’adesione all’accordo sulla rappresentanza del gennaio del 2014 e chi pensa invece che anche l’uso strumentale, sia pure tatticamente per poter avere voce in capitolo all’interno del posto di lavoro e delle RSU – sia di per sé un “tradimento della classe operaia”.
Sembra quasi che il problema principale oggi, nel contesto terribile che stiamo vivendo sul piano globale e su quello nazionale, per qualcuno, sia quello di tirare una linea di demarcazione su questo atto formale: da una parte i “puri”, dall’altra i “traditori”. Sinceramente, a noi sembra una pura follia ideologica, da cui ci sentiamo lontani anni luce.
Peraltro, la piattaforma di convocazione dell’assemblea e dello sciopero parlava di necessità di lottare, tra le tante cose, anche contro quell’accordo infame sulla rappresentanza, cosa sulla quale c’è il massimo della condivisione da parte di tutti. Però, forse, la vera discriminante aveva altre ragioni, meno nobili e più interne a forme di concorrenzialità intersindacale.
Per quanto ci riguarda, pensiamo che il rapporto con la rappresentanza formale, da parte dei movimenti di classe, sia sempre stato di tipo strumentale. L’obiettivo di chi storicamente si è posto il problema della trasformazione radicale dell’esistente, per non parlare della rivoluzione, è sempre stato quello di costruire movimenti in grado di scombinare continuamente il quadro delle relazioni formali ed istituzionali, non di creare “testi sacri”, utilizzati per scomunicare chi non ci si adegua. Nel primo caso si tratta di una visione materialistica dei processi storici e sociali, la seconda appartiene ad una visione puramente ideologica della lotta di classe in nome della quale qualcuno si arroga il diritto usare la scomunica contro qualcuno, colpevole di eresia, nella speranza di portare qualche “fedele” in più nella propria parrocchia.
Oggi è evidente che non esiste un movimento di classe generalizzato dalle dimensioni tali da travolgere e mettere in discussione complessivamente le relazioni formali; esistono però spezzoni di classe che in alcuni settori hanno prodotto profondi sconvolgimenti all’interno dei rapporti di forza, anche a livello delle relazioni formali e delle forme della rappresentanza.
Abbiamo provato a dirlo nell’assemblea di Milano, citando quello che è avvenuto all’interno della logistica dove la rappresentanza è stata imposta con la lotta, in netto contrasto con quanto previsto da CCNL, legge 300…e ovviamente dall’accordo del 2014. Ma non possiamo non rilevare anche l’esempio dell’ATAF di Firenze dove l’uso strumentale delle RSU ha portato da parte della Confederazione Cobas, da un lato a conquistare la maggioranza assoluta degli RSU e dall’altro a far si che allo sciopero del 16 giugno partecipasse quasi la totalità dei lavoratori.
E’ quindi evidente che non è “opportunismo” dire che non ci può essere un approccio dogmatico alla questione della partecipazione o meno alle elezioni delle RSU, ma tatticamente deve essere valutata situazione per situazione, in rapporto ad analisi contingenti sull’utilità o meno di questa scelta. Sapendo bene che bisogna continuare a chiedere la cancellazione dell’accordo del 10 gennaio 2014 e che tutti gli accordi possono essere messi in discussione o, in maniera molto laica e spregiudicata, o aggirati. Una caratteristica fondamentale della lotta di classe è la spregiudicatezza, nel senso di “ostentata indipendenza e libertà di modi e atteggiamenti, temerarietà, libertà da pregiudizi preformati e tradizionali”, in quanto le “regole” dello scontro di classe non possono mai essere predefinite o statiche, ma si devono adeguare continuamente alla necessità di cambiare lo stato di cose presenti.
Come ADL COBAS all’incontro di sabato 23 settembre abbiamo portato non il parere di una cerchia ristretta di militanti, ma la decisione presa da una assemblea tenutasi un giorno prima – alla quale 200 delegati hanno potuto partecipare con un permesso retribuito conquistato con la lotta, dalle barricate del Prix a Grisignano, alla occupazione della Coca Cola, agli scontri con la polizia e con le guardie private in molti magazzini del Veneto e dell’Emilia Romagna, alle centinaia di denunce accumulate in questi anni di pratiche di lotta considerate dallo Stato illegali, che hanno scardinato il sistema di comando all’interno dei magazzini e imposto fondamentali miglioramenti delle condizioni lavorative. Da questa assemblea nostra era emersa chiaramente la richiesta di unificare la data della giornata di mobilitazione, sciopero e lotta.
Ma non solo. Dai delegati è stato ribadito in maniera forte il bisogno di mettere in comune tematiche più ampie, segno di un importante e necessario percorso di consapevolezza politica e soggettivazione dei lavoratori e delle lavoratrici.
Crediamo sia importante continuare a fare scelte che rompano con lo schematismo, avendo il coraggio di attraversare tutti i processi che guardano al cambiamento come una “parzialità” consapevole della propria non autosufficienza e della necessità di ricomporre soggetti sociali intorno a specifici nodi del presente.
Ed è per questo che guardiamo anche ad altre realtà e movimenti oltre al sindacalismo di base, che si battono per la difesa dell’ambiente e dei beni comuni, contro la violenza di genere e per una cittadinanza inclusiva e il welfare universale. In particolare crediamo che la battaglia per l’accoglienza degna e per la libertà di movimento, contro le politiche della frontiera e la crescita di un sentimento razzista e xenofobo, sia centrale per combattere meccanismi sempre più funzionali alle logiche della governance di frammentazione sociale e di intensificazione dello sfruttamento.
Dopo la giornata di sabato invece prendiamo atto, con delusione, che le cose sono andate diversamente e ci troviamo di fronte alla convocazione di due scioperi generali, il primo per il 27 ottobre, il secondo il 10 novembre. È stata persa quindi un’occasione per dare vita ad una giornata nella quale tutte le varie forme sindacali, più che pensare al proprio orticello, potevano costruire, ciascuna nella propria autonomia, tanti momenti di lotta vera, insieme ad altri soggetti, che messi tutti assieme avrebbero formato un unico mosaico in grado di dare almeno uno scossone ad un quadro politico, sindacale e di movimento sempre più paludato. Peccato!!
A questo punto, in linea con la nostra natura eretica, abbiamo deciso di partecipare per il settore privato e della logistica alla giornata di lotta, mobilitazione e scioperi del 27 ottobre, mentre come Pubblico Impiego e servizi pubblici parteciperemo alla giornata di lotta e sciopero del 10 novembre.